Il giorno del funerale di Kayla il cielo era bianco come una lastra.
Neve e nuvole si confondevano in un unico velo freddo. Sembrava che il mondo intero avesse trattenuto il fiato.
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Non andai.
Non potevo.
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Avevo il petto troppo stretto. La testa troppo piena. Le mani tremavano e non era per il freddo.
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Elita non disse nulla.
Mi guardò soltanto, quel mattino. Mi porse una tazza di caffè e si rimise sul letto, con le ginocchia nude sotto la coperta.
– Hai dormito? – chiese.
– Poco.-
– Pensi sia stata io.-
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Non risposi.
Non mentii.
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Lei si rigirò verso la finestra. Il suo profilo era pallido, quasi trasparente nella luce dell’alba. I capelli scuri sciolti sulle spalle.
– Se ti stessi solo difendendo? – mormorò. – Se sapessi che tutti quelli che ci vogliono portare via… alla fine muoiono?-
– Portare via da cosa?-
– Da questa cosa che abbiamo.-
– E cos’è, Elita?-
Si voltò. Mi fissò con quegli occhi chiari. Quasi inumani. Ma dentro, io ci vedevo ancora la ragazza rannicchiata sotto la mia coperta, la prima notte.
– Non lo so – disse. – Ma non voglio perderlo-.
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Passammo la giornata chiusi in casa.
Lei sembrava più fragile del solito, quasi persa. Camminava scalza per il corridoio, leggeva pezzi di riviste vecchie, si sedeva al tavolo e giocherellava con un cucchiaino. Ogni tanto mi osservava. Non parlava, ma capivo che mi stava ascoltando dentro.
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Nel pomeriggio nevicò. Forte.
– Sai… ho sognato qualcosa.- mi disse ad un tratto.
– Che cosa?-
– Mia madre. Ma non avevo un volto. Solo mani. Mi pettinava. Mi accarezzava. E piangeva.-
Deglutii.
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La sera decisi di fare una prova, una specie di esperimento a mie spese.
Il coltello da cucina luccicò sotto la luce fioca mentre lo rigiravo tra le dita.
La lama mi fissava con un occhio metallico, come se mi sfidasse a procedere.
Inspirai profondamente, l'odore del caffè ormai freddo nella tazza accanto che si mescolava al metallo del mio sudore.
Devo sapere.
La lama affondò nella carne del palmo con un morso freddo che si trasformò immediatamente in fiamma.
Il sangue uscì rosso vivo contro la pelle pallida, e strinsi i denti per non emettere un suono.
Dalla cucina arrivava il rumore dell'acqua corrente. Elita stava lavando i piatti, ignara.
Poi, un improvviso silenzio.
Non ebbi nemmeno il tempo di contare fino a tre.
Quando alzai lo sguardo, lei era già davanti a me, il petto che le si alzava e abbassava velocemente.
I suoi occhi di ghiaccio erano fissi sulla mia mano sanguinante.
-Che hai fatto?- la sua voce era un sibilo.
Prima che potessi rispondere, le sue dita mi afferrarono il polso con una forza inaspettata. Il contatto bruciò come una fiamma viva, poi si trasformò in un torpore che risalì lungo il braccio.
Guardai, ipnotizzato, mentre la mia carne lentamente si rigenerava.
Il sangue smise di scorrere.
La pelle si stirò, rimase solo una linea rossa.
-È incredibile- mormorai, la voce roca.
Ma quando alzai lo sguardo, Elita sembrava... diminuita.
Era più stanca.
Quando scostò una ciocca di capelli, notai che le sue dita tremavano.
-Ogni volta che faccio questo... perdo qualcosa- sussurrò. -Tempo. Calore. Energia.-
La guardai negli occhi, cercando di comprendere.
-Tu... sei umana?-
Elita si avvicinò fino a sfiorarmi le labbra con le sue.
Quando parlò, il suo alito sapeva di neve e di ricordi perduti.
-Si, ma forse non del tutto.-
Fuori, il vento ululò tra gli alberi spogli. E in quel momento capii con terribile certezza che la mia paura non era mai stata per Elita.
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Era per quello che potevamo diventare insieme.
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La notte ci stendemmo nel letto.
Restammo in silenzio a lungo. Avevo una domanda dentro, che scavava. Alla fine, la lasciai uscire.
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– Elita… tu puoi sentire i miei pensieri?-
Lei girò il viso verso di me. Non negò. Ma neppure confermò.
– A volte.-
– Quando?-
– Quando non riesco a fidarmi. Quando ho paura che tu stia decidendo se odiarmi o amarmi.-
– E adesso?-
– Adesso ho paura.-
Le presi la mano.
– Non ti odio – dissi. – Ma ho bisogno di sapere che posso fidarmi. Che se ti chiedessi di non fare più del male a nessuno… tu potresti farlo.-
Lei chiuse gli occhi.
Si rannicchiò contro il mio petto.
– Proverò – sussurrò. – Ma non sono come te, Alex. Le cose che provo… sono troppo grandi. Troppo violente. Quando amo… mi consumo. Quando temo… distruggo.-
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La notte fu lunga.
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Mi svegliai due volte. Una per un rumore fuori. Un’ombra che si mosse sul muro, forse un albero nella tempesta.
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L’ultima volta che aprii gli occhi, era in piedi davanti alla finestra.
Nuda, illuminata dal chiarore azzurro della neve fuori. Non si voltò.
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– Elita.. -
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Non mi sentì. O non volle sentirmi.
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Feci due passi avanti.
Le presi un polso.
Lei sobbalzò, si voltò.
– Non puoi vedermi così – disse.
– Così come?-
– Così fragile. Così… reale.-
– Elita, ascoltami..-
Le sue labbra erano tremanti. Ma i suoi occhi… no.
Quelli bruciavano come ghiaccio che non vuole sciogliersi.
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Fu in quell’istante che avvenne.
Una crepa, appena udibile, percorse il vetro dietro di lei.
Mi avvicinai, lento.
Lei cadde in ginocchio.
Piangeva.
– Non voglio perderti, Alex… ma non so controllarlo… quando sento che mi stai lasciando… è come se qualcosa dentro si spezzasse.-
Mi inginocchiai accanto a lei.
Le presi il viso fra le mani.
– Ti sto chiedendo solo una cosa. Non ferire più nessuno.-
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Lei annuì.
Una sola volta.
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Fu in quel momento che capii che la crepa non era nel vetro.
Era dentro di noi.
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