Passarono tre giorni. Tre giorni senza sentire la sua voce. Senza toccarla. Senza guardarla negli occhi.23Please respect copyright.PENANA8UaOKkamo5
La neve aveva sepolto tutto.
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Mi ero rifugiato in una vecchia baita in rovina, tra i pini spezzati e la solitudine più assoluta. Non c’era elettricità, solo un camino mezzo guasto che tossiva fumo freddo e odore di legna bagnata. Avevo trovato un letto con le molle arrugginite e un materasso troppo sottile. Una coperta che odorava di muffa. Ma almeno non c’era lei. Non lì. Non ancora.
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Spegnevo il telefono ogni notte, come un atto di sopravvivenza. Come se staccare quella luce potesse spegnere anche lei.
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Evitavo gli specchi. Evitavo i sogni.
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Eppure bastava chiudere gli occhi — solo un istante — e la sentivo. Il calore morbido del suo ventre premuto contro il mio. Il gusto delle sue labbra ancora impigliato sulla lingua. La voce...
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Come se la parte più profonda di me la desiderasse ancora. Come se fosse impossibile davvero scappare.
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Mi svegliavo con il sudore freddo.
Il cuore che batteva fuori tempo. Le mani che tremavano.
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Mi mordevo il braccio, a volte. Mi graffiavo il collo, per restare sveglio. Mi colpivo contro il muro con il fianco, quando sentivo che stavo per cedere. Facevo di tutto per tenermi lontano da lei. Per non sprofondare ancora.
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Perché una parte di me sapeva — lo sapeva da sempre — che più la lasciavo entrare, più perdevo me stesso.
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Eppure la volevo ancora. Dio, quanto la volevo.
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Il secondo giorno mi svegliai con la neve che aveva sfondato una finestra. Il vetro crepato lasciava entrare spifferi taglienti. Il fuoco si era spento da ore. Le mani mi tremavano mentre cercavo di accendere un fiammifero, ma le dita erano troppo rigide.
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Corsi fuori. Vomitai nel gelo.
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Il vento mi tagliò la faccia. Le labbra si spaccarono in due punti. Sanguinavano senza che me ne accorgessi.
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Avevo portato con me solo cibo in scatola, una coperta, un vecchio coltellino. Una foto dei miei genitori in tasca, che non guardavo da anni. E il diario che avevo iniziato da ragazzino. Pagine piene di rabbia, di parole spezzate, di desideri mai confessati.
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La scrittura mi sembrava così estranea ora. Come se fosse appartenuta a un altro Alex. Un Alex che non aveva mai incontrato Elita.
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Lessi una frase che avevo scritto a diciassette anni:
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<<Se ami davvero qualcuno, non ti perdi. Ti trovi.>>
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La chiusi subito. Perché sapevo che era una bugia.
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La notte seguente feci un sogno. Lei era seduta sul pavimento della baita. I capelli nudi sulle spalle. I piedi scalzi nella neve. Mi guardava con dolcezza.
– Sei stanco – mi disse.
– Sì – risposi. – Ma non voglio più averti addosso.-
Lei si avvicinò.
– Non sono addosso. Sono dentro. Non puoi più cacciarmi.-
– Posso provarci.-
– E allora proverai per sempre. Perché non c’è uscita.-
Mi svegliai urlando. Il cuore tamburellava nel petto come un uccello intrappolato.
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Aprii gli occhi. Ero solo. Ma le lacrime mi bruciavano sul viso. E sentivo ancora l’eco della sua voce tra le ossa.
Il terzo giorno, la neve si era fatta più spessa. Il tetto cigolava sotto il peso. Uscire era difficile. Ma restare.. ancora peggio.
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Avevo bisogno di muovermi. Di respirare un’aria che non avesse il suo odore.
Camminai per ore nei boschi. Il freddo mi tagliava le guance. I rami frustavano il cappuccio del giaccone. Mi sembrava di essere tornato bambino, quando scappavo di casa per non sentire le urla di mio padre. Allora pensavo che la neve potesse coprire tutto. Adesso sapevo che certe cose si insinuano sotto la pelle. Non importa quanto freddo faccia fuori.
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Rientrai che era quasi buio. Non accesi il fuoco. Mi chiusi nel silenzio.
Presi il cellulare. Lo accesi.
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Una sola notifica.
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<<Hai freddo?>>
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Sgranai gli occhi. Le mani mi si paralizzarono.
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Non avevo portato con me il telefono nel bosco.
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Ero certo di averlo spento.
Corsi fuori. La neve era più alta. Bianca come una coperta stesa su un corpo immobile.
Guardai intorno alla macchina, dove l’avevo parcheggiata.
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Impronte. Piccole. Precise. Intorno alla portiera. Poi via. Sparite nel nulla.
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Mi mancò il fiato.
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Elita era stata lì.
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Non mi aveva mai perso davvero. Non si era allontanata. Mi lasciava solo quel tanto che bastava a farmi credere di poter scegliere.
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Ma io non avevo più scelta.
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Tornai dentro. Chiusi la porta con il catenaccio. Tirai una coperta sulla finestra rotta. E crollai sul materasso, ancora vestito. Il cuore mi martellava sotto le costole.
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Pensai a quando l’avevo vista per la prima volta, distesa sulla neve, appena investita.
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Pensai a tutte le volte che l’avevo desiderata.
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E pensai anche che forse era troppo tardi.
Che non si scappa da chi ti entra dentro col sangue.
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Che l’unico modo per salvarsi, era non amarla mai.
Ma io l’avevo amata. E adesso non sapevo più chi fossi, sotto tutta quella neve.
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Accidenti a lei come mi ero ridotto!!
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