
– La pasticceria della domenica
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Avevo sei anni, e in collegio non ci volevo stare.
Era stata una decisione dei grandi, forse di mia madre, forse di mio padre. Ma io, piccola com’ero, non capivo perché dovevo restare là, lontana da casa, lontana da lei.
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La domenica, però, arrivava la luce.
La luce era mia nonna.
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Faceva sei chilometri a piedi per venire a prendermi, e sei per tornare sulla collina dove viveva. Dodici chilometri con ogni tempo, solo per stare un po’ con me.
Io uscivo dal portone del collegio con il cuore che mi batteva forte. Lei era là, in piedi, diritta, con lo sguardo che cercava il mio. Mi prendeva per mano, e io mi sentivo salva.
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Quella mano era casa.
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Mi portava sempre in una piccola pasticceria. Un posto magico, piccolo, luminoso, profumato. Appena si apriva la porta, suonava una campanella lieve, come una carezza nell’aria.
Dentro, c'erano i dolci di un tempo, quelli che oggi non ho più rivisto.
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“Scegliti quello che ti piace di più”, mi diceva.
Ma io non volevo dolci.
Volevo stare con lei.
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La pasticceria era solo la cornice.
Il vero dolce era lei: mia nonna Elvira.
La sua voce, le sue dita che mi accarezzavano i capelli, il suo dialetto schietto quando parlava di mia madre: “Chella pazza de mammuta che t'ha portato a iu culleggio " diceva con una punta di rabbia, perché non accettava che io fossi stata portata via da casa.
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Non portava lo scialle, camminava svelta, con le gambe forti e la volontà d’acciaio delle donne che avevano cresciuto figli da sole. Ma accanto a me si faceva morbida, si piegava al mio passo, si fermava a guardare la mia felicità come se fosse oro.
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Quell’immagine ce l’ho ancora nel cuore, e la tengo stretta: noi due, sedute nel piccolo tavolino della pasticceria, lei che mi indica le paste, io che la guardo e penso che in quel momento, nel mondo, non c’è nulla di più bello.
Mi sentivo protetta, amata, viva.
E quella è stata la vera dolcezza della mia vita.
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